martedì 2 marzo 2021

Storia di #Marzamemi e della sua tonnara di Salvo Sorbello

 L’impegno profuso per la salvaguardia del tonno rosso ha prodotto un notevole aumento delle quantità di catture che potranno essere effettuate nei prossimi anni nel Mediterraneo.

Sarà così ora possibile assegnare alle tonnare italiane una parte di queste quote aggiuntive attribuite alla nostra nazione.

La tonnara fissa, peraltro, posta a confronto con altri metodi di pesca, se può apparire violenta agli occhi dei più, da un punto di vista ecologico è senza dubbio un sistema sostenibile, perché non danneggia il fondo marino ed inoltre le maglie delle sue reti sono tanto grandi da permettere ai pesci di piccola taglia di poter scappare senza difficoltà.

In tale contesto potrebbe certamente godere di una valida opportunità di rinascita anche Marzamemi, che era la più importante tonnara della Sicilia Orientale.

Quando erano in attività, le tonnare siciliane risultavano concentrate solo in alcune zone dell’isola: quella settentrionale nei pressi di Milazzo e di Palermo, quella occidentale del trapanese e quella sud-orientale del siracusano. Lungo la costa della nostra provincia operavano ben diciassette tonnare, da Brucoli a Portopalo, ma quella di Marzamemi era “la tonnara migliore di ritorno del Regno ed isola di Sicilia, facendo delle ubertosissime pescagioni” affermava il D’Amico, studioso dell’800.

Concessa il 14 febbraio del 1555, con investitura della Regia Corte ad un barone spagnolo, nei primi anni di attività la tonnara non veniva calata ogni anno, bensì ad anni alterni, perché non si riuscivano a smaltire tutti i tonni pescati, che, in gran parte, venivano salati e conservati in botti di legno. Solo dalla seconda metà del Settecento venne calata annualmente.

Già nel 1583 l’ingegnere fiorentino Camilliani, incaricato dal Viceré, aveva rilevato che nella rada di Marzamemi serviva una torre di maggiore grandezza rispetto a quella esistente, per proteggere meglio la costa e la tonnara.

Le tonnare di Marzamemi e Vindicari furono acquistate da Simone Calascibetta (nobile di Piazza Armerina e giudice a Palermo) “dal Regio Fisco il 14 febbraio del 1655, insieme con quelle di Fiume di Noto e Santa Bonagia per una tenuissima somma.”, come riporta il Memoriale delli Giurati di Noto a S.M., risalente probabilmente al 1747. La vendita puro e franco allodio, con i relativi titoli di barone, avvenne per novemila onze. Il nuovo padrone era esente dall’obbligo del servizio militare e trasmetteva i privilegi agli eredi. In quel periodo la Spagna, dopo gli ingenti costi sopportati per la Guerra dei Trent’anni, aveva un urgente bisogno di cospicui capitali e le vendite di tonnare e di titoli nobiliari furono tra le misure attuate per reperire, in tempi brevi, nuove e consistenti entrate economiche.



Le tonnare siciliane attraversarono, soprattutto nel primo trentennio del 1700, un periodo di profonda crisi, a causa di fattori climatici in grado di influenzare le migrazioni dei tonni. Da parte loro, i Calascibetta concessero la tonnara in gabella ai Nicolaci di Noto, che gla gestivano in precedenza. Questi ultimi possono essere considerati veri e propri “industriali del tonno”, in grado di poter affrontare, in maniera programmata, gli innumerevoli problemi derivanti dalle variazioni della quantità di pescato; solo grandi capitali ed acume imprenditoriale potevano infatti fronteggiare perdite pluriennali, ammortizzabili nei successivi anni positivi di pesca e di commercializzazione. Nel 1774 acquistarono il titolo di principe di Villadorata, aggiungendo al loro stemma baronale “una colonna dorica fondata sulla pianura”

Nel 1746 vennero avviati i lavori per la realizzazione degli edifici della tonnara oggi esistenti, su iniziativa di Bernardo Calascibetta, nipote di Simone, utilizzando nuovamente le latomie greche che sono ancora visibili ai giorni nostri. Venne costruito il palazzo signorile, una chiesa e le casette (i pagliari) per i pescatori e le loro famiglie. A dirigere i lavori Matteo Corso e Pasquale Alì. Alla Balata, uno spiazzale costruito con basole biancastre di calcare, in cui venivano scaricati e trascinati i tonni fino a raggiungere i magazzini, è possibile vedere ancora ai giorni nostri altri due fabbricati, denominati “vecchia fabbrica”, dal caratteristico arco, dove si produceva il ghiaccio, e casa Cappuccio”, un’antica abitazione di proprietà del principe di Villadorata, con tre facciate e un terrazzo, rivolti strategicamente verso il mare.

Nel frattempo, la nascita di Pachino, voluta dagli Starrabba, anch’essi originari di Piazza Armerina, aveva impresso un nuovo impulso a Marzamemi, con la costruzione dei magazzini che si trovano lungo la via principale e che servivano per custodire sia le botti di vino, da spedire poi via mare in Liguria e in Francia, sia le oltre trecentomila tonnellate di sale, prodotte dalle due saline di Morghella e Marzamemi. Verso la fine dell’800 Antonio Starrabba, marchese Di Rudinì, che fu per due volte presidente del consiglio dei ministri, fece costruire un grande palmento mentre i Villadorata realizzarono un mulino a vapore, che fu poi convertito in distilleria.

Nel 1800 la tonnara risultava in mano ai duchi San Nicolò e, come tutte le tonnare di ritorno, visse anni di declino. Nel 1868 è il principe Corrado di Villadorata ad essere padrone della tonnara. Nei successivi anni ’80 dell’Ottocento, Ottavio Nicolaci di Villadorata, con grande acume imprenditoriale, prese a censo le tonnare di Terrauzza, Ognina, Fontane Bianche, Fiume di Noto, Sta in Pace e Vendicari, col solo scopo di concentrare tutti i tonni nell’impianto di Marzamemi. Iniziò allora un periodo di nuovo splendore, che durerà circa quarant’anni e dal 1899 fu anche attivato lo stabilimento per la conservazione del tonno sott’olio, stavolta in barattoli di latta, ispirandosi alle



innovazioni sperimentate con successo dai Florio a Favignana.

Verso la fine dell’Ottocento a Marzamemi si pescavano quindi, in media, 4500 tonni circa all’anno, come risulta dalla Relazione alla Commissione Reale per le tonnare di Pietro Pavesi, pubblicata dal Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio nel 1889.

Un prezioso resoconto dell’attività della tonnara di Marzamemi nel 1904, pervenuto integro ai nostri giorni, può fornirci un quadro davvero dettagliato. In una trentina di pagine, scritte con una calligrafia impeccabile e senza alcuna correzione, vengono “fotografati” minuziosamente tutti i vari aspetti della tonnara, partendo dalla distribuzione dei carati della proprietà, ripartiti tra il cav. Pietro Bruno Modica, Vincenzo Nicolaci locatario di Nicola Nicolaci, il Principe di Villadorata ed altri.

Il primo giorno di pesca fu il 3 giugno, quando vennero catturati otto tonni, tutti subito venduti, per un totale di 255 kg, l’ultimo il 29 agosto, con soltanto due tonni. Vengono poi elencate, giorno per giorno, anche le quantità pescate di pesci spada, sgambirri, alelunghe, palamiti, scamali, cavariti nonché i cosiddetti carnaggi. In totale, in quell’anno furono pescati 4149 tonni (1316 a giugno, 2659 a luglio, 174 in agosto), che pesavano in tutto 439.455 kg, con un introito di 184.709 lire, come attestano, con le loro firme, Giorgio Badame, il razionale D. Paternò e l’amministratore principe di Villadorata.

A lavorare presso la tonnara nel 1904 furono trenta marinari, 25 marinarotti, 4 campieri, un acquaiolo, un sorvegliante, un barbiere, un calafato, un capomastro, uno scrivano di camperia, un pesatore, due rais oltre al razionale ed all’amministratore, secondo una rigida scala gerarchica ma tutti consapevoli di appartenere ad un’unica avventura, la mattanza. Se consideriamo anche le famiglie, per diversi mesi il borgo ospitava alcune centinaia di persone, che avevano così la possibilità di sfamarsi e di mettere da parte qualcosa per i mesi più difficili. Erano purtroppo ancora numerose le vittime di epidemie di tifo, per la totale assenza d’igiene (a Marzamemi la rete idrica funziona dal 1933). Rileva il duca d’Ossada: “non vi è ceto più povero di quello dei pescatori…quanto sarebbe desiderabile nella società un’anima sensibile che si interessasse per la sorte di questa gente infelice!”.

Nel diario del 1904 vengono anche elencate le spese per il culto: dieci lire per cera, ostie e vino, 120 per la celebrazione di ventiquattro Sante Messe, come da nota del sacerdote Cultraro (5 lire per ogni funzione). Nell’inventario erano poi compresi tre scieri (denominati San Corrado, Concettina e Progresso), una chiatta, una muciara per i Rais e tre speronare: Madonna del Carmine, Dante e Fanny.

La tonnara di Marzamemi, che pescava 2.655, 2.735 e 3.233 tonni, rispettivamente negli anni 1902, 1905 e 1911, ad iniziare dal 1922 cominciò a registrare una lenta ma



inesorabile diminuzione del pescato, tanto che nel 1926 fu deciso di chiudere lo stabilimento conserviero. I tonni catturati venivano ora venduti presso il mercato ittico di Catania, grazie anche alla nascita di alcune fabbriche di ghiaccio e alla diffusione dei camion, che consentivano un rapido trasporto via terra. Lo stabilimento conserviero aveva funzionato per conto dell'industria Angelo Parodi di Genova: addetti alla lavorazione erano specialisti genovesi come ligure ne era il direttore. Le scatolette che venivano prodotte avevano come marchio di fabbrica "AP Angelo Parodi Genova - Tonno all'olio puro di oliva - Lavorazione sul posto di pesca”.

Una svolta radicale nella storia di Marzamemi di registra nel 1935, quando venne inaugurata la ferrovia che collega Noto con Pachino: il porto di Marzamemi, da allora, non ebbe più la grande rilevanza che aveva avuto in precedenza per il trasporto del vino verso il porto di Genova e dei panni di lana, prodotti in grande quantità a Noto, verso le città del nord – Europa.

Lo stabilimento conserviero rinacque nel 1937 per opera della nobile signorina Preziosa, dei baroni Bruno di Belmonte di Ispica; questa volta, però, per la lavorazione del pesce azzurro, che veniva sbarcato da numerosi pescherecci palermitani, che sfruttavano la pescosissima secca di Pachino, distante da Marzamemi circa otto miglia. Non ebbe però fortuna: durò solo un anno.

La tonnara proseguì tra molte difficoltà la sua attività. Il 12 giugno del 1943, pochi giorni prima dello sbarco alleato, venne mitragliata, con morti e feriti, dall'aviazione inglese. Riprese a funzionare l'anno successivo, ma con risultati sempre modesti (qualche paio di centinaia di tonni) e nel 1969 chiuse definitivamente. Intanto il borgo si era andato espandendo verso nord, in parte anche nel territorio del Comune di Noto e già nella prima metà del ‘900 la popolazione residente era di circa 400 abitanti

Per rendersi conto della scarsa produzione delle tonnare siracusane negli anni ’50, così come per tutte le tonnare in generale, è sufficiente esaminare i dati pubblicati da Trasselli, che evidenziano come, dal 1947 al 1952, in provincia di Siracusa venivano calate da sei a otto tonnare, con un numero di tonni catturati che si aggirava su una media di 700/800 anni in totale. Ancor più deludenti i dati raccolti sei anni dopo dall’Ufficio Provinciale di Statistica di Siracusa riguardanti il totale del pescato delle quattro tonnare ancora attive: Santa Panagia, Terrauzza, Marzamemi e Capo Passero.

Per comprendere come funziona una tonnara fissa, occorre considerare innanzitutto la sua struttura, costituita dall’insieme delle reti, poste verticalmente dalla superficie al fondo del mare. Le reti risultano formate da due grandi apparati perpendicolari tra loro: il pidali e l’isula.




Il pidali, fissato ad uno scoglio detto catina, collega l’isula alla terraferma; il punto di contatto tra pidali e isula è denominato u spicu (che è indicato da un’asta che emerge dalla superficie del mare per circa due metri e sulla quale si pongono alcune immagini sacre, come quella di Sant’Antonio Abate e o di San Francesco di Paola). È un segmento di rete, la cui lunghezza varia dalle poche centinaia di metri delle tonnarelle, ai due chilometri e più delle tonnare più grandi. Costituisce il primo sbarramento incontrato dai tonni, che si vedono costretti a risalirne la superficie sino ad arrivare all’entrata dell’isula.

L’isula è un parallelepipedo disposto parallelamente alla linea di costa, con le pareti verticali realizzate tramite reti. Presenta un’apertura, detta vucca o faraticu, attraverso la quale entrano i tonni. Nei pressi del faraticu viene posizionato il rivotu o mustazzu, una piccola appendice a forma di “L”, con il compito di riportare i pesci sperduti nella giusta direzione. All’interno, l’isula risulta formata da più vasi o cammare, divise da varie porte in rete, che ne regolano l’apertura e la chiusura. Qui sosta il pesce prima di giungere alla cammara di la morti o leva o corpu, dove avviene la mattanza.

In un canto recitato due volte, sia al momento del calatu che al momento del salpatu, si inneggia ad una certa Lina, che dapprima è una bella fanciulla vergine, fiera della propria illibatezza e che merita per ciò parole di riguardo. Successivamente diviene una “donna di malaffare”, che, concedendosi a chiunque, è pronta per ogni nuovo parto. Lina non appare altro che una trasfigurazione della rete stessa, vergine al momento del calo e gravida di tonni a fine campagna. E l’identificazione della rete con una donna sarebbe il motivo per cui i marinai rivolgono preghiere e canti per propiziare una pesca abbondante a sant’Antonio, che concede la grazia della gravidanza alle donne sterili.


I barconi su cui venivano issati, al comando del Rais e con uno sforzo sovrumano, i tonni finiti nella camera della morte erano gli scieri: con oltre venti metri di lunghezza sono le più grandi imbarcazioni utilizzate in tonnara. Di scieri ve ne sono sempre due, uno fisso e l’altro mobile che, in base alla posizione occupata nel “quadrato” della leva, prendono la connotazione di livanti o punenti. Anche dentro queste imbarcazioni i tonni continuano a dibattersi ed a colpirsi tra di essi, provocando un rumore impressionante, finché, sfiniti e boccheggianti, non restano esanimi. Accadeva spesso che alcuni marinai, stremati per la fatica, alla fine della mattanza prendessero il bagno proprio nella camera della morte, arrossata dal sangue dei tonni ma al riparo dal pericolo di qualche pescecane che spesso capitava nei pressi della tonnara.

I tonni caricati nello sciere venivano contati ed in relazione al loro numero erano issate delle bandiere di diverso colore, collocate in diversi punti dello sciere stesso: una bandiera bianca a lato sud era il segnale di dieci tonni; la stessa ma posta al centro, era il segnale di venti tonni, una bandiera rossa di trenta, tre bandiere, una al centro e due ai



lati, era quello di 50 tonni, mentre l'innalzamento di un pezzo di cappotto al centro era segno di cento o più tonni e questo spiegherebbe perché viene ancora usata l’espressione fare cappotto. In tal modo venivano avvisati i lavoranti della camperia, che potevano così prepararsi in maniera adeguata. Purtroppo da qualche anno gli scieri, prima custoditi nella grande loggia, si trovano esposti alle intemperie e anche la ciminiera superstite è in pessime condizioni.

Il complesso edificio di reti, precedentemente descritto, occupava i tonnaroti per circa cento giornate l’anno, di cui quaranta o cinquanta per la pesca vera e propria e le rimanenti per il montaggio dell’ingegnosa struttura a inizio campagna e la sua relativa rimozione a fine pesca. L’intero ciclo di lavoro si compone di quattro fasi distinte: il cruciatu, il calatu, la mattanza ed il salpatu.

Di queste, se la mattanza è la più spettacolare, quelle che presentano le maggiori difficoltà sono le prime due e solo una grande perizia, fondata sulla conoscenza del mare, dei pesci e dei venti, poteva farle concludere positivamente.

Questi quattro momenti si susseguono, in ugual modo, in tutte le tonnare di Sicilia, tenendo però bene a mente le differenze di natura tecnica e cronologica dipendenti dalla diversa localizzazione geografica e dal loro essere di andata o di corsa o di ritorno. Quelle di andata intercettano i tonni quando non si sono ancora riprodotti, le seconde invece quando, dopo aver completato il loro ciclo riproduttivo, tornano verso l’oceano Atlantico.

Terminata la pesca, i tonni erano portati nello stabilimento, dove, tramite degli argani, venivano immersi in acqua per essere lavati, onde evitare che il loro sangue potesse guastare la carne. Decapitati e sventrati, una parte erano venduti subito ai cavallari, pescivendoli che trasportavano il tonno su dei carri, e il resto, portati in spalla dagli infanti o con carretti fin dentro la loggia, venivano appesi per la coda nell’apindituri, dove rimanevano ventiquattr’ore a dissanguare. Da un balcone interno, ancora esistente e che si affaccia sulla camperia, il principe aveva modo di controllare che il lavoro procedesse nel migliore dei modi.

Trascorso questo tempo, le procedure si differenziavano in base al luogo e alle tecniche di conservazione, senza però che una qualche parte del tonno venisse scartata.  

Non a caso il tonno spesse volte è stato accostato al porco, come recita il seguente proverbio: u surri i majiu e u porcu i frevaru (il tonno di maggio e il maiale di febbraio). Anche la testa e le pinne erano utilizzate, pressate e bollite servivano ad ottenere un olio lubrificante delle attrezzature meccaniche e persino il residuo di questo veniva usato



come concime (baganu). Lo stabilimento conserviero era addossato alla loggia ed al palazzo del Principe e i suoi ruderi, delimitati dalla Via Jonica, dalla via Marzamemi e dalla via Letizia, sono riconoscibili per l'alto fumaiolo quadrilatero.

Dal tonno rosso vengono ricavati: il mosciame (parte di tonno lavorata ed essiccata al sole), la ventresca (la più delicata e pregiata parte del corpo del tonno), la bottarga (le uova di tonno, asportate nella loro sacca placentare, di forma vagamente ovale e messe sotto pressa, facendole essiccare lentamente), il tarantello (il filetto, privo di grassi e molto morbido), il lattume (il liquido seminale del tonno), la soppressata o salamini (la carne del tonno tritata e successivamente insaccata in budella, che anticamente erano di vitello)

Sull'andamento stagionale della pesca inoltre influivano i venti, tanto che per la tonnara di Marzamemi valeva il seguente detto: quannu lu ventu suscia a livanti, i pisci sunu abbunnanti; i venti gricali e maestrali nun fannu né beni né mali, ma quannu lu ventu suscia a punenti, stuiti u mussu ca nun fai nenti  (quando il vento soffia da levante i pesci sono abbondanti; i venti di grecale e maestrale non fanno né bene né male; ma quando soffia da ponente, rassegnati, perché non si piglia niente).

Ai marinai provenienti dai paesi vicini veniva dato in uso per tutta la stagione della pesca un pagliaru, vale a dire una di quelle casette di pochi metri quadrati che ancora attorniano la piazza Regina Margherita ed il cortile arabo a Marzamemi. Un pagliaru per ogni famiglia ed a volte per due famiglie, cariche e stracariche di figli, in una promiscuità indescrivibile.

I più fortunati disponevano di un letto fatto di trispoli, tavolo e materassi di paglia di orzo; gli altri dovevano arrangiarsi solo con della paglia buttata a terra che trovavano già sul posto, perché fornita dall'amministrazione della tonnara, che in precedenza aveva anche fatto imbiancare, con calce viva, l'interno degli alloggi. I pagliari (che ora ospitano ristoranti e bar rinomati) non erano forniti di servizi igienici, per cui gli adulti, uomini e donne, per evitare sguardi indiscreti, soddisfacevano i bisogni fisiologici nelle ore notturne, in riva al mare, sugli scogli, ed i più piccoli, invece, a tutte le ore, nei pressi delle abitazioni. Pochissimi disponevano dell’apposito vaso da notte in terracotta (cantru), che sistematicamente svuotavano a mare.

Non vi era naturalmente nemmeno l'acqua corrente, per cui ogni moglie di marinaio andava a ritirare la sua razione giornaliera, pari ad una brocca di una decina di litri, alla "loggia" della tonnara. Questo quantitativo d'acqua serviva per bere e per cucinare; per tutto il resto si doveva adoperare quella di mare.

Per tutto il caseggiato della tonnara, l'approvvigionamento idrico era assicurato da due enormi cisterne ancora esistenti e situate a sinistra guardando la vecchia chiesa. L’acqua



piovana veniva raccolta nell'enorme terrazza del palazzo del principe, costruita lievemente in discesa, con una canaletta che convogliava l'acqua stessa verso l'arco che unisce il palazzo suddetto con la chiesa vecchia (l’arco attuale sostituisce quello originario, crollato nel 1979 a causa dell’errata manovra di un camion). In questo modo l'acqua attraversava la strada e raggiungeva le suddette cisterne mediante un condotto esterno, di terracotta, che passava sopra il cornicione della porta della chiesa.

Una conduttura sotterranea poi, per caduta, portava l'acqua dalle cisterne fino alla "loggia" della tonnara nelle vicinanze nella scala di accesso al palazzo del principe; da qui gli inservienti la salivano al palazzo stesso per i fabbisogni dei bagni, uno per ogni camera da letto e per le cucine, tutti forniti di giare con coperchio di legno su cui troneggiava una bianca caraffa smaltata.

Andateci a Marzamemi – così scriveva Tony Zermo, inviato de La Sicilia, in un articolo di una ventina d’anni fa - camminate per quegli antichi vicoli dietro la Balata lambita dal mare, guardate la facciata della chiesa dietro la quale non c’è più nulla, tutti i muri caduti come fosse una quinta teatrale, ammirate il vasto palazzo del principe del Villadorata con la facciata annerita dal tempo, le imposte sghembe, i putti delle colonne senza più naso e bocca. Attorno guardate le casette in rovina dei pescatori, un intero quartiere dolcemente piegatosi alla carezza del tempo. È come se di botto tornaste indietro di quattro secoli e vi lasciaste alle spalle la modernità, le auto, i telefonini, i pc, lo stress di una vita di corsa. È bello perdersi qui dimenticando gli affanni. Una borgata marinara che ha pochi eguali al mondo.

Ed in effetti, come hanno fatto rilevare nel tempo autorevoli scrittori ed artisti, l’incanto di Marzamemi è anche in queste mura di pietra, dello stesso colore della sabbia che si trova nelle splendide spiagge che circondano il borgo, nel fascino intatto di una donna che il tempo non è riuscito a privare della bellezza.

La morfologia del territorio di Marzamemi è caratterizzata dalla presenza di due isole: l’isola piccola, dove ancor oggi sorge la villa di color rosso che fu di proprietà dei parenti di Vitaliano Brancati, il grande scrittore pachinese e dove villeggiava il professore Raffaele Brancati, cugino dello scrittore ed illustre chirurgo e l’isola grande, oramai unita alla terraferma a causa dell’evoluzione sedimentaria, che forma il porto grande e si prolunga nel mare con una lunga banchina di calcestruzzo.

L’origine del nome Marzamemi è controversa: secondo alcuni deriverebbe dalle parole arabe marza, che significa ‘porto’ e memi, che significa ‘piccolo’, mentre secondo il glottologo netino Corrado Avolio il toponimo discenderebbe dall’arabo marsà ‘al hamam, cioè «baia delle tortore», per l’abbondante passo di questi uccelli in primavera. Simone Sultano, a sua volta, rileva come alcuni lo fecero erroneamente derivare da marza e memi,



‘pidocchio’, perché le mamme solevano dire questa parola ricercando i parassiti tra i capelli dei figli. Antonino Terranova, infine, cita anche un’altra tesi, secondo la quale Memi sarebbe riferito ad “Eufemio, ex comandante della flotta bizantina il quale, ribellatosi all’imperatore Michele II Balbo, passò dalla parte degli arabi e con loro iniziò la conquista dell’isola; “Marza-memi” perciò significherebbe Porto di Eufemio, così come Marsala vuol dire “Porto di Alì” oppure “Porto di Allah”.

Alle spalle dei due porti attuali si trovano i ‘pantani’, anch’essi porti migliaia di anni fa e poi in parte utilizzati come saline. Il territorio è ricco di importanti presenze di tracce risalenti al paleolitico superiore (Grotta Corruggi), al neolitico (Grotta di Calafarina e di Morghella), all’età del bronzo (Necropoli in contrada Cugni), ma non mancano resti di latomie, di templi greci e di catacombe paleocristiane, a testimonianza di insediamenti già in età antica. Purtroppo versano tutti in stato di abbandono e non c’è neppure un cartello a segnalarne la presenza.

A circa un chilometro dalla costa si trovano i reperti sommersi di una chiesa di epoca e ambiente bizantini, scoperti da un pescatore del luogo, Alfonso Barone, nel 1959, mentre pescava polipi ed oggetto di ricerche da parte dell’archeologo tedesco Gerhard Kapitän e di Pier Nicola Gargallo. Una nota rivista francese dedicò all’epoca la sua copertina al ritrovamento, di cui già anche Paolo Orsi aveva raccolto qualche notizia nei primi del ‘900, ma aveva dovuto rinunciare alle ricerche per mancanza di fondi.

Il più illustre poeta arabo-siciliano, Ibn Hamdis, nato a Siracusa, si fermò a Marzamemi nel 1078 nel suo viaggio verso l’esilio, dopo l’avvento dei normanni, e rimase talmente colpito dal suo paesaggio da dedicarle dei versi; allo stesso modo, poeti, scrittori, giornalisti e artisti di ogni genere sono stati attratti dal fascino di Marzamemi e, da oltre vent’anni, il paesino è stato prescelto da numerosi registi.

La chiesetta vecchia della tonnara, dedicata alla Beata Maria Vergine di Monte Carmelo e costruita in pietra arenaria, oggi in parte distrutta e con una copertura provvisoria, conserva sempre un grande fascino (aveva all’interno tre altari, con altrettante statue: quella della Madonna di Pompei, di S. Antonio di Padova e di S. Francesco di Paola, patrono di Marzamemi e custodiva anche un artistico dipinto raffigurante la Madonna del Carmelo che tiene sul braccio sinistro il Bambino). La chiesa aveva già subito forti danni tanto tempo fa a causa di un fortunale abbattutosi sul borgo. Oggi, nella stessa piazza, sorge la chiesa nuova, dedicata a S. Francesco di Paola, in pietra bianca, costruita per volere di papa Pio XI, sul cui prospetto spicca un rosone di stile romanico

Il giornalista e scrittore Corrado Stajano, il cui padre era netino, ipotizza che anche i re borbonici venissero a Marzamemi ad assistere alla mattanza. E certamente affascinati da



questi luoghi furono il re Ferdinando II di Borbone e la sua consorte, che si recarono nella zona nell’ottobre del 1838, visitando anche il Forte di Capo Passero.

Marzamemi è il capolinea del sud, come venne definita da Gabriele Salvatores, il regista del film Sud, girato nel borgo venticinque anni fa e che ha contribuito moltissimo alla valorizzazione della frazione marinara, di “quel paesino del Siracusano che più a sud di così non si può, il capolinea del sud, un sud dove nessuno fugge più, da cui anzi non si può più fuggire: un confine dell’anima, oltre il quale si deve scegliere”.

È straordinario come ancora oggi Marzamemi si presenti come uno scenario irreale, un teatro naturale di emozioni. Una cosa è comunque certa: non lascia mai indifferenti.

La nostra speranza è che a Marzamemi venga risparmiata la triste sorte già purtroppo capitata ad altre tonnare, che, sia per l’amenità dei siti in cui sorgono sia per il pregio artistico ed i volumi degli edifici, si sono prestate bene ad essere reinterpretate come “resort”, invase dal turismo di massa.

L’esempio da seguire, a nostro avviso, si trova proprio nella nostra regione, con l’ex stabilimento Florio di Favignana, progettata da Giuseppe Damiani de Almeyda, uno dei più prestigiosi architetti siciliani e dove, sino a non molti anni fa, il tonno entrava ancora boccheggiante e usciva dentro le scatolette. L’intervento tempestivo della Soprintendenza di Trapani, che sottopose a vincolo l’intero arcipelago delle Egadi, impedì che venisse fatto scempio di questo gioiello di archeologia industriale. Attualmente al suo interno è attiva una vasta area destinata ad attività museografiche, con sale multimediali, oltre ad un museo archeologico, in cui sono esposti reperti terrestri e marini, e ad una ampia ed accogliente sala convegni.

Gli edifici della tonnara non devono quindi essere visti come contenitori”, suscettibili di essere riempiti utilizzando attività socio-economiche estranee alla loro radicata identità storica. Emblematica è, a tal proposito, l’immagine di un vecchio schiere trasformato in bancone da bar all’interno di un residence sorto al posto di un’antica tonnara della Sicilia occidentale. In tal modo vengono perduti per sempre importanti, insostituibili pezzi di memoria collettiva locale.

Se si smarrisce il genius loci, solo qualche foto ingiallita e qualche libro resteranno a ricordare che quel centro vacanze, magari conservando il suggestivo nome “La tonnara”, era stato un mondo vitale ed unico, che aveva garantito pane e lavoro a centinaia di persone in tempi davvero difficili.

Negli Otto peccati capitali della nostra civiltà, Konrad Lorenz sostiene che il peccato più preoccupante è forse quello di perdere le tradizioni: se le smarrisci, infatti, non hai più i



riferimenti nell’universo in cui collocarti.

In un’era di globalizzazione, chi perde la propria identità si consegna a valori e riferimenti estranei ed effimeri. E non ci può essere futuro senza una precisa identità.

Salvo Sorbello